Il legame con la terra della sua famiglia materna, Poggio Umbricchio, è tatuato sulla pelle di Fabio Petrella, giovane scrittore teramano.
“Dove non arrivano i sentieri” (Edizioni Palumbi) è un romanzo in cui il mondo interiore dello scrittore si armonizza con lo sfondo corale, vibrante di umanità della popolazione di pastori della provincia abruzzese.
Nel libro si offre un’immagine dell’Abruzzo non convenzionale, ma appassionata e intensa: l’Italia di cui parla Petrella è una terra esperta del dolore e di antica saggezza, dove un fatalismo degli abitanti, frutto dell’assuefazione alle sventure, si accompagna a una miseria ereditaria. Le simpatie dell’autore vanno agli umili, “in ciascuno di essi, umiliato, Cristo muore ogni giorno”.
Protagonista della storia è Vincenzo, nato il 25 febbraio 1926 a Poggio Umbricchio, un piccolo paese dell’entroterra teramano.
La sua famiglia è assai umile, il padre è un pastore e ben presto anche lui apprenderà quell’arte e imparerà a conoscere “le montagne come il palmo della sua mano”.
La ricerca della felicità e di un futuro migliore lo porterà a emigrare in America, dove lavorerà tutta la vita come operaio.
Lì si sposerà, senza riuscire ad avere un erede.
Alla morte della moglie ritroverà le proprie origini, agognando quel rapporto simbiotico con i suoi monti. ”Si sentiva stanco e comprese che il suo tempo in America si era concluso”. Al suo ritorno Vincenzo troverà un paese mutato radicalmente: “Aveva cercato i cacciatori di stelle e i coltivatori di grano, ma tra le impervie vie del borgo erano rimasti solo uomini affranti che vivevano il crepuscolo del loro tempo”.
I nostri connazionali che scelsero l’America l’immaginarono una proiezione più felice della patria, ma così non fu. E sognarono tutti, indistintamente, di tornare a morire nella propria Terra. Ma non per tutti ciò fu possibile.
Mi vengono in mente le struggenti parole che, nelle Bucoliche di Virgilio ( I, vv, 19-45), Titiro rivolge a Melibeo su un viaggio a Roma: “Urbem, quam dicunt Romam, Meliboee, putavi/ stultus ego hiuc nostrae similem, quo saepe solemus/ pastores ovium teneros depellere fetus./ Sic canibus catulos similes, sic matribus haedos/ noram; sic parvis componere magna solebam./ Verum haec tantum alias inter caput extulit urbes,/ quantum lenta solent inter viburna cupressi”. (“Vi è una città che chiamano Roma. Io stolto, o Melibeo, la credetti simile alla nostra, dove noi pastori spesso usiamo avviare la tenera prole del gregge: così conoscevo i cuccioli simili ai cani, i capretti alle madri; così solevo paragonare il piccolo al grande. Ma questa città sollevò tanto il capo tra le altre, quanto sogliono i cipressi tra i molli viburni”).
Oltre i monti la realtà sfugge, è troppo rapida, transeunte, si rinnova velocemente. La vita dei contadini è al contrario abitudinaria, statica, scandita dal lavoro nei campi.
Oltre l’Oceano c’è l’America. La speranza di non morire “cafoni”, ma operai, commercianti, comunque benestanti. Ma lì non c’è il cuore, oggi come allora.
Accanto alla storia di Vincenzo e della propria famiglia, si muovono personaggi bizzarri, alcuni reali, altri trasfigurati. Talune leggende presenti, come quella del libro del comando, sono poi veri e propri topoi del folklore contadino.
Le fonti da cui Petrella ha attinto sono Silone, Buzzati e Calvino, cui rimanda il titolo stesso del romanzo. La scrittura dell’autore si muove libera e agile attraverso i sentieri dei monti abruzzesi. Il lettore attraversa quasi fisicamente quei luoghi: sente l’erba bagnata sotto i propri piedi, vede i giocatori nel bar del paese, assaggia il caglio ancora caldo, scopre sotto la neve i corpi assiderati dei due giovani mendicanti, corre dietro i due gatti neri, ossessione del parroco.
“Lo scrittore ha saputo dare un carattere di unità all’opera attraverso il suo rapporto affettivo, di umana partecipazione alle sorti dei personaggi ripresi dal vero e in genere dell’ambiente”. Dove non arrivano i sentieri cammina il nostro io ideale. Lì si muovono le nostre illusioni, ma anche i nostri sogni, che danzano al plenilunio con le streghe, risucchiati nella notte atra.

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