Ieri sul quotidiano La Repubblica il Ministro Graziano Delrio è tornato ad invocare l’abolizione delle Province, promettendola entro fine anno e sottolineando come fosse un preciso impegno elettorale di Bersani, nonché un esplicito obiettivo di mandato di Enrico Letta quando ottenne la fiducia dalle Camere per il suo governo.
Da dipendente provinciale ne sono lieto, ma temo l’aggressione dei conservatori, l’agguato dei parrucconi.
Checché ve ne dicano i soloni che non hanno nessunissima esperienza diretta, cari lettori, la chiusura delle Province è estremamente utile e porterà sicuri benefici alle Istituzioni e al bilancio dello Stato.
Non occorrono né centri studi né esperti di statistica per comprenderne i vantaggi:
- lo stesso quotidiano La Repubblica fornisce uno schemino molto chiaro dal quale si evince come le Province costino 9 miliardi l’anno;
- di questi, solo 2,4 miliardi l’anno vengono spesi per fornire i servizi alla collettività (cioè trasporti, strade, scuole, rifiuti). Ciò significa che il 26,6% della spesa complessiva viene impiegato per fare ciò che le Province dovrebbero fare: gestire servizi di loro competenza per l’utilità dei cittadini. Quindi un quarto della spesa produce risultati, tre quarti se ne vanno per alimentare la macchina;
- in particolare, costano 2 miliardi l’anno le indennità degli amministratori e le consulenze: soldi buttati che potrebbero essere risparmiati integralmente (2 miliardi sono la metà del gettito IMU sulla prima casa);
- 3 miliardi l’anno sono le spese per il personale, spalmati su un totale di 57000 dipendenti. Appare evidente anche a un bambino che il personale non possa costare il 125% del prezzo dei servizi resi alla collettività;
- 1 miliardo l’anno è la spesa per la gestione degli Enti provinciali;
- 0,6 miliardi, infine, la spesa annuale per la manutenzione degli immobili e degli affitti.
Se presentate questi numeri ad una qualsiasi azienda privata vi rideranno in faccia per la palese insostenibilità economica e per lo squilibrio fra costi totali e servizi resi.
Ma siamo in Italia, Paese dove tutto è consentito, dove ogni scemenza che esca dalla bocca di chi campa con la politica trova orecchie pronte ad ascoltare, Paese dove il merito delle questioni conta meno di zero, Paese dove la distrazione di massa è una strategia efficacissima, Paese dove non si incidono i bubboni che ci portiamo appresso da decenni, Paese dove la coerenza non è più un valore e la memoria non esiste.
Un Paese, l’Italia, dove un sindaco come Brucchi affermava perentoriamente alla fine del 2010: “per diminuire le spese, Tremonti avrebbe potuto, per esempio, eliminare le province, prima di tagliare i fondi ai Comuni” (http://www.ilcorrieredabruzzo.it/teramo/politica-teramo/18295-il-corriere-dabruzzo-incontra-il-sindaco-brucchi.html).
Poi, dall’anno successivo, Brucchi compie una inversione ad U e diviene il paladino della strenua difesa delle Province, battaglia condotta fino alla marcia su Roma per scongiurarne il rischio di chiusura.
In un Paese così tutto è concesso, soprattutto l’uso di un’arma micidiale: “il benaltrismo”. Quest’arma consente sempre di spostare il discorso pubblico su di un piano diverso rispetto a quello oggetto di analisi, con il risultato di buttarla in caciara e di non decidere mai niente.
Nel caso della discussione sulla eliminazione delle Province il giochino è semplice e viene introdotto da congiunzioni avversative: però le Province sono gli enti locali che spendono meno; ma alla fine i Comuni e le Regioni spendono molto di più; però in fondo cosa sono 9 miliardi l’anno rispetto agli 800 miliardi della spesa pubblica; tuttavia sono altre le riforme importanti; però sarebbe meglio incidere sugli sprechi; ma poi il risparmio effettivo sarebbe minimo; ecc. ecc.
Siamo un Paese un po’ così.
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