Sono passati ormai quasi tre anni dalla pubblicazione di un volume curato da Ivana Kerečki intitolato Il dossier nascosto del ‘genocidio’ di Srebrenica (ed. La Città del Sole, Napoli, pagg. 175, € 12) in cui quello che è stato definito il maggior eccidio di massa che ha avuto luogo sul suolo d’Europa a partire dal 1945 viene analiticamente e storicamente indagato e revisionato e in cui viene smontata pezzo per pezzo la tesi della pulizia etnica programmata e pianificata messa in atto dai serbi in tale frangente. Tale studio riveste una duplice importanza: non solo per il ripristino della verità storica su un evento in cui hanno oggettivamente perso la vita numerose persone (civili, tra l’altro) ma anche perché i fatti di Srebrenica sono assurti, nel corso degli anni, a una sorta di catarsi collettiva per tutti i popoli balcanici, serbi a parte, che hanno avuto modo così di giustificare moralmente ogni sorta di nefandezza commessa, spesso ai danni dei serbi stessi. Non solo: l’eccidio di Srebrenica è servito, fuori dai Balcani, alla propaganda delle potenze occidentali in generale e degli Stati Uniti in particolare, per costituire un valido retroterra emotivo all’aggressione che di lì a poco avrebbero sferrato contro Belgrado. Indicativo il fatto che sia spesso accostato all’olocausto, in risposta e conseguenza al quale tutto è lecito: anche uccidere, anche imprigionare un uomo perché ha pensato.
Il dossier si compone di quattro parti fondamentali: la prima analizza parte dell’operato del Srebrenica Research Group, un gruppo indipendente di personalità anglosassoni tra cui l’alto responsabile delle Nazioni Unite Philip Corwin che evidenzia come il fantastico numero di ottomila uccisi a Srebrenica (che in realtà, come vedremo, sono stati almeno dieci volte meno) fosse scaturito solo da un calcolo politico congiunto tra il governo di Sarajevo e le potenze occidentali per poter mettere in atto le ritorsioni contro la Serbia e la Republika Srpska (RS). Ciò che accadde nella cittadina bosniaca, secondo la lucida analisi dell’ex rappresentante ONU, fu solo il culmine di una serie di attacchi e contrattacchi che si protraevano ormai da tre anni, ma niente a che vedere con un genocidio; vengono altresì analizzate le incongruenze per cui la città, dichiarata “zona di sicurezza” disarmata, era costantemente – come altre enclavi – utilizzata dalle forze dell’esercito musulmano bosniaco e dalle bande di gangster di Naser Orić come retrovia per il lancio di attacchi contro le autorità e le forze armate serbo-bosniache circostanti: da qui la definizione, da parte del personale ONU russo, di unica “soluzione sensata”, soluzione che l’esercito serbo di Bosnia ha necessariamente messo in atto, attraverso una rapida vittoria militare che si risolse però in una drastica sconfitta politica. L’occidente aveva finalmente un casus belli. Conclude il capitolo Michael Mandel, che si occupa della questione giuridica per cui l’operato dei serbi in Bosnia non possa in alcun caso qualificarsi nei termini di “genocidio” e che rileva, con amara ironia, che quando lo stesso tribunale dell’Aia ha dovuto recedere da tale accusa per carenza di prove ha poi fatto valere in sede processuale l’eresia giuridica secondo cui i serbi non avrebbero commesso determinati crimini solo per paura di essere scoperti, arrivando a sanzionare un crimine dichiaratamente non commesso solo a causa dei motivi che hanno spinto il non-reo a non commetterlo.
La seconda parte dell’opera è dedicata alle testimonianze dirette degli avvenimenti, tra cui quella del generale canadese Lewis Mac Kenzie, primo comandante delle forze ONU a Sarajevo. Questi, confermando con la sua narrazione la prassi precedentemente descritta secondo cui spesso le forze armate del governo di Sarajevo hanno deliberatamente colpito i propri stessi cittadini al fine di favorire la reazione internazionale (leggasi: NATO) contro i serbi, racconta anche di come le richieste di incremento di truppe presentate dagli alti ufficiali ONU per la protezione di Srebrenica e delle altre enclavi furono costantemente disattese col preciso intento di assecondare i piani bosniacchi e delle bande di Orić che prevedevano la presa della città da parte serba, al fine di scatenare la rappresaglia. Circostanziata teoria ripresa dall’alto funzionario ONU Carlos Martins Branco, il quale arricchisce il dossier con le particolarità relative al ritiro e alla mancata difesa della cittadina da parte delle truppe regolari e irregolari di Sarajevo. Chiudono il capitolo una intervista al Dr. Milan Bulajić, che ci svela di come le autorità bosniache abbiano omesso lo svolgimento di un censimento obbligatorio della popolazione sia nel 1996 che nel 2001 al fine di occultare il numero reale di persone decedute a Srebrenica, e due ritratti che mettono a luce la natura sanguinaria del comandante bosniaco Naser Orić, precedentemente citato.
La terza parte del dossier prende in considerazione il rapporto redatto sui fatti di Srebrenica da una commissione speciale del governo della Republika Srpska, il Centro di documentazione della RS per l’investigazione sui crimini di guerra, smentisce categoricamente e contraddice le requisitorie del Tribunale penale internazionale dell’Aia. Il rapporto governativo, inoltre, pur ammettendo che sporadici episodi di giustizia privata e di vendetta sommaria possono aver avuto luogo ai danni della popolazione musulmana, evidenzia come fu proprio la presenza sul campo e la determinazione del generale Ratko Mladić a scongiurare il reiterarsi di tali circostanze. Secondo quanto riferì il presidente bosniaco Izetbegović fu lo stesso Clinton a ‘richiedergli’ almeno cinquemila morti per scatenare la rappresaglia contro i serbi. Lo sostiene anche Philip Corwin, l’alto funzionario ONU firmatario del nostro dossier: «esiste un potere di sbalordire molto maggiore nella morte di 7000 che in quella di 700».
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Io sono con Fabrizia...con l'ironia di Bakunin e contro chi nega la storia. Rimango un democratico e conservo il senso dell'ascolto, ma non condividerò mai una simile visione.