Il Ministro dell’ambiente Clini, intervenendo alla VII edizione della manifestazione “Mediterre” di Bari, ha dichiarato che non vi è alcuna possibilità di bloccare le ricerche di petrolio in mare: la posizione del Governo al riguardo resta “quella della legge”, che “stabilisce delle regole” e “va applicata”.
Chiunque pensasse di intraprendere una battaglia contro le ricerche del petrolio perderebbe in partenza. Non ci potrebbe essere alcun divieto in proposito, perché “questo va contro direttive e contro regole europee”.
Del resto, la legge dello Stato è già ampiamente garantista. Essa contiene “norme di salvaguardia” per l’ambiente e assicura la partecipazione degli Enti locali nel procedimento, che mette capo al rilascio dei permessi e delle autorizzazioni: “la procedura di valutazione di impatto ambientale prevede sempre l’inchiesta pubblica” e gli enti locali vengono sempre “sentiti per legge”.
Di ciò se ne tiene “naturalmente” conto. Per queste ragioni occorre difendere la legge strenuamente. Se invece si ritiene che essa “non sia sufficiente, si entra in una situazione che non fa bene all’ambiente, perché si aprono degli spazi che io non saprei dire da che parte vanno poi a chiudersi”. In altre parole: vietare il petrolio sarebbe impossibile perché contrasterebbe con il diritto dell’Unione europea.
In ogni caso, non si capisce di cosa ci si debba dolere: la legge italiana tutela già l’ambiente ed è garantista al punto tale che persino gli enti locali possono esprimere il proprio punto di vista in occasione del rilascio dei permessi e delle autorizzazioni.
A parere del Ministro, la legge contiene delle regole e va applicata. Anche la Costituzione, aggiungerei. In questo annoso e stanco dibattito lo si dimentica quasi sempre. Come se la Carta costituzionale non prevedesse a chiare lettere che la competenza legislativa per il settore energetico spetti allo Stato e alle Regioni assieme e che lo Stato sia tenuto a fissare solo i principi fondamentali della materia. Come se essa non stabilisse che la potestà regolamentare spetti unicamente alla Regione. Come se essa non sancisse che l’esercizio delle funzioni amministrative spetti agli Enti locali e solo in via eccezionale allo Stato.
Ma ammettiamo pure che non sia così.
Ammettiamo che la Costituzione sia cartastraccia, che la questione sia più complessa e che non si possa pensare di risolvere tutto in modo così schematico. Ammettiamo, cioè, che lo Stato debba fare tutto: adottare le leggi, adottare i regolamenti, rilasciare i permessi e le autorizzazioni. Nel 2003, la Corte costituzionale aveva osservato che l’invasione della competenza legislativa delle Regioni da parte dello Stato costituisce una deroga legittima “solo se la valutazione dell’interesse pubblico sottostante (…) sia proporzionata, non risulti affetta da irragionevolezza alla stregua di uno scrutinio stretto di costituzionalità, e sia oggetto di un accordo stipulato con la Regione interessata”.
Ed ha aggiunto che occorre seguire un iter “in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà”. Nella successiva sentenza n. 383 del 2005, in relazione alle funzioni amministrative e proprio con riguardo al problema del petrolio, ha poi chiarito che “dovendosi individuare un organo adeguatamente rappresentativo delle Regioni, ma anche degli Enti locali, (…) emerge come naturale organo di riferimento la Conferenza unificata”.
Con la precisazione ulteriore che l’accordo “fra gli organi statali e il sistema delle autonomie territoriali rappresentato in sede di Conferenza unificata” debba darsi nella forma dell’intesa “in senso forte”. Ebbene, non mi pare che la legge dello Stato vada esattamente in questa direzione. Né mi pare che i regolamenti e gli atti amministrativi generali siano adottati di intesa con le Regioni e gli Enti locali. E neppure che nel rilascio dei permessi e delle concessioni gli Enti locali siano realmente coinvolti.
Si dirà: ma il Ministro Clini si riferiva alle attività in mare, non a quelle in terraferma. Ora, a parte il fatto che non si comprende per quale motivo le Regioni e gli Enti locali non dovrebbero avere alcuna competenza sul mare (territoriale) (come se la Costituzione ripartisse le competenze legislative e amministrative tra lo Stato e le Regioni secondo il criterio della terraferma o del mare), vorrei osservare che proprio in relazione alle attività in mare la legge dello Stato nega ogni diritto di partecipazione agli enti territoriali (Regione compresa).
Forse il Ministro alludeva alla partecipazione al procedimento di valutazione di impatto ambientale. Che, però, non mi pare una gran cosa. Soprattutto se si tiene presente che la ricerca del petrolio in mare non sempre è sottoposta automaticamente a VIA. Lo è necessariamente solo quando ciò avvenga attraverso la tecnica della perforazione del pozzo esplorativo.
Il Ministro sostiene che la legge “stabilisce delle regole” e che non va modificata. Pena il rischio di entrare in uno stato di incertezza. Vogliamo verificare il tasso di certezza che discende dalla normativa vigente e da quel che accade talvolta in concreto? L’attuale disciplina della materia è recata dalla legge n. 99 del 2009, che ha modificato sul punto la legge n. 239 del 2004.
In ordine alla ricerca in terraferma, essa stabilisce che il permesso di ricerca del gas e del petrolio è rilasciato a seguito di un procedimento unico cui partecipano tanto lo Stato quanto la Regione interessata.
Una volta che il permesso sia accordato, di ciò è data comunicazione ai Comuni (tanto perché la legge garantisce la partecipazione degli Enti locali). Ottenuto il permesso di ricerca, la società petrolifera può fare una cosa sola: svolgere attività di “prospezione” ossia eseguire “rilievi geologici, geofisici e geochimici (…) con qualunque metodo o mezzo, e ogni altra operazione, volta al rinvenimento di giacimenti, escluse le perforazioni dei pozzi esplorativi”.
In base al “permesso di ricerca” non è possibile, dunque, cercare gas o petrolio ricorrendo alla perforazione dei pozzi.
Per fare questo occorre che la società petrolifera ottenga una apposita autorizzazione da parte del Ministero. In questo caso, la legge prevede, però, che il progetto sia previamente sottoposto a valutazione di impatto ambientale e che (questa volta sì) al rilascio dell’autorizzazione partecipino anche la Regione e gli Enti locali. Una logica non molto dissimile ispira, inoltre, anche la ricerca degli idrocarburi in mare. Con un’unica importante differenza: che al procedimento che mette capo al permesso e all’eventuale autorizzazione non partecipano né la Regione né gli Enti locali.
Fin qui la legge. Se, però, si passa a vedere quanto dispongono il Decreto del Ministro dello sviluppo economico e quello del Direttore generale per le risorse minerarie ed energetiche (adottati nel 2011 ed anche in questo caso senza il rispetto delle condizioni stabilite dalla Corte costituzionale nella sentenza che si richiamava più sopra) si entra già in una prima fase di incertezza, in quanto si scopre che esisterebbero due tipi di permessi: quello di “ricerca” e quello di “prospezione”. Come se la legge del 2009 non avesse abrogato, sul punto, la precedente disciplina recata dalla legge n. 9 del 1991. Ma è solo un esempio. Guardiamo ora a quel che accade talvolta in via di prassi.
Sul Bollettino ufficiale della Regione Abruzzo n. 68 dell’11 novembre 2011 si reso noto che in Regione è pervenuta una istanza di permesso di ricerca denominato “Villa Mazzarosa”. Nell’avviso si afferma che detto permesso avrebbe ad oggetto “lo svolgimento di studi geologici e interpretazione di linee sismiche (…) volti a determinare l’ubicazione di un prospetto a gas nel sottosuolo” e che, sebbene nell’area interessata dalla ricerca insistano “zone protette”, “esse non saranno interessate da attività di perforazione e/o registrazione sismica”. La Regione chiede, quindi, a “chiunque” abbia interesse di esprimersi sulla opportunità di sottoporre a VIA tale progetto.
Ora, secondo la legge, il permesso di ricerca di per sé non comporta alcuna perforazione. Se si vuol cercare gas o petrolio perforando, occorre che si sia in possesso di una autorizzazione ad hoc. E poiché l’autorizzazione ad hoc alla perforazione deve essere preceduta da una valutazione di impatto ambientale del progetto occorre dirlo senza mezzi termini. Dall’avviso diramato dalla Regione, però, non si capisce se si perforerà. O meglio: a leggere attentamente l’avviso si capisce che non si perforerà nelle aree protette, non che non si perforerà in assoluto. Del resto, basterebbe leggere attentamente lo studio preliminare ambientale presentato dalla società petrolifera per capire che certamente lo si farà. Ma se così è, allora, perché chiedere se sia il caso di sottoporre il progetto a valutazione di impatto ambientale? La Regione non dovrebbe neppure chiederlo. Dovrebbe farlo e basta.
Ma c’è un’altra questione, forse la principale, che vorrei chiarire. Il Ministro sostiene che non vi è alcuna possibilità di bloccare le ricerche di petrolio in mare perché ciò contrasterebbe con il diritto dell’Unione europea.
Eppure il diritto europeo è chiaro al riguardo. In base ad una Direttiva del 1994, cui l’Italia ha dato attuazione nel 1996, ogni Stato membro non solo ha la facoltà di stabilire condizioni e requisiti per l’esercizio delle attività petrolifere se così giustificato da motivi di sicurezza nazionale, sicurezza pubblica, pubblica sanità, sicurezza dei trasporti, protezione dell’ambiente, tutela delle risorse biologiche e del patrimonio nazionale avente valore artistico, ecc. (art. 6), ma ha anche “il diritto di determinare (…) le aree da rendere disponibili” all’esercizio delle attività stesse (art. 2). Cosa impedirebbe, dunque, allo Stato italiano di chiudere l’Adriatico alle attività petrolifere?
Sarebbe sufficiente notificare alla Commissione europea questa volontà (art. 9). E l’Unione europea non potrebbe che prenderne atto.
Commenta
Commenti