Gli Stati Uniti hanno sempre esercitato un loro fascino su di me. Gia' appena atterri senti che qualcosa cambia (e non e' solo la moneta). Poi esci e tutto diventa enorme! Le case-ville con giardino, circondate di verde come nei bravi film holliwoodiani, le strade larghissime fino alle 12 corsie, le macchine ipertrofiche e gli americani extralarge…Come guardare il mondo riflesso in uno specchio convesso…
Ti senti piccolo, ma con tanto spazio a disposizione…vallate sterminate e ampie distese davanti…quel senso di liberta' che si prova davanti all'infinito…Non c'e' che dire, un Paese splendido che vien voglia di fermartici, stabilirtici per la vita…magari in una di quelle belle ville…Cosi' mentre mi chiedo se non sia il caso di fare come molti altri italiani e prendere il "largo" , magari venendo qui, si avvicinano una collega, columbiana, ora maitre de conference a Parigi, e due dottorande: una iraniana e l'altra cinese. Parlano…parlano di com'e' non sentirsi mai a casa propria, essere sempre straniero in terra straniera e non piu' a proprio agio nemmeno sul suolo natio. Di come ci si sente spersi, un po' soli, senza radici…parlano con tristezza delle loro case, dei loro Paesi che hanno dovuto lasciare per la mancanza di possibilita', possibilita' di lavorare, di fare ricerca, di vivere dignitosamente. Mi domando: a che punto e' un Paese quando la sua meglio gioventu' e' costretta ad andarsene? Migranti oggi peggio di ieri…esuli in cerca di dignita'…
«. . . Tu lascerai ogne cosa diletta
più caramente; e questo è quello strale
che l'arco de lo essilio pria saetta.
Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e 'l salir per l'altrui scale. . .»
Da Columbus ( OH )
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